Se c’è un senso, sei tu.
Afterhours
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Non è una vera e propria sala d’attesa. È un largo corridoio, sul quale danno tre ascensori e da cui si accede a diversi reparti. Ai lati ci sono delle panche di metallo macchiate e scomode sulle quali siamo seduti noi: i genitori dei bambini che stanno dall’altra parte del muro. La nostra identità è data dai nostri figli e dalla somma dei giorni trascorsi qui. Siamo la mamma di, il papà di, siamo qui da due giorni, da una settimana, domani fa un mese. Ci accomunano le lunghe attese, a casa e in ospedale, le ore che trascorriamo su strada per vedere i nostri bambini per un’ora, per infilare le mani nell’oblò e accarezzarli o per guardarli dal vetro di un corridoio lungo e grigio che costeggia le grandi finestre del reparto. Ognuno di noi ha delle foto sul telefonino che somigliano a quelle dell’altro. Tutti le abbiamo scorse un’infinità di volte, nel segreto delle nostre stanze, le abbiamo guardate a lungo e in ogni momento, abbiamo cercato un segno, una risposta, e non le abbiamo mandate praticamente a nessuno. A chi avremmo dovuto mandarle? Perché? Fuori di qua quale altro cuore avrebbe capito il nostro?
Il giorno in cui vengo dimessa dalla clinica è il primo in cui entro in reparto. I punti mi tirano, indosso la fascia elastica e cammino a piccoli passi. Seguo i gesti delle altre mamme che sono qui da prima di me. Come loro indosso il camice, la cuffia e i copriscarpe, mi lavo e disinfetto le mani. Dentro non so dire come mi sento, l’antidolorifico si è preso prima i dolori e poi la coscienza. E forse è un bene. Mi controllano il green pass e spariscono, una mamma nota il mio disorientamento e mi fa cenno di seguirla, la ringrazio con gli occhi, nei giorni seguenti non l’avrei più rivista. All’infermiera dico il nome e il cognome di mio figlio, mi indica una culla tra quelle più vicine. Quando leggo il suo nome sul cartellino mi rendo conto che è tutto vero, che esiste, ed è lì.
All’inizio lo guardo soltanto, è più piccolo di quanto sembrasse in foto. Apro i vetri degli oblò e infilo dentro le mani. Nella culla l’aria è calda e quel calore mi risale attraverso le dita fino al collo, comincio a sudare, mi gira la testa. Con le mani mi faccio strada tra i tubicini della flebo e del respiratore. Lentamente, accarezzo mio figlio sulla pancia. Lo tocco per la prima volta. La sua pelle è sottile, quasi trasparente, e io continuo a chiedermi come dovrei sentirmi, e perché invece di provare la stessa tenerezza che vedo sul volto delle altre madri, io avverto solo l’impeto di scoperchiare la culla, strappare via dal suo corpo tutti quei sondini e scappare con lui, andare lontanissimo, diventare due puntini all’orizzonte che si fondono insieme fino a sparire.
Lui non si muove, al mio tocco non reagisce. Scoprirò dopo che è stato sedato perché quei sondini voleva strapparseli da solo. Ed è questo il nostro primo incontro, confuso, stordito: lui sedato, io sotto antidolorifico.
Dopo si susseguono giorni simili l’uno all’altro: giorni in cui diventano familiari termini prima sconosciuti, come surfattante, gavage; giorni in cui i tempi di percorrenza raddoppiano perché è la settimana di Ferragosto e sull’autostrada c’è un viavai di catanesi verso i luoghi di villeggiatura; giorni in cui entro io in reparto e mio marito resta nel corridoio e giorni in cui nel corridoio resto io; giorni in cui ci convinciamo di essere sereni e dopo l’ospedale andiamo a mangiare nei posti che amiamo. E poi ci sono dei giorni diversi, dei momenti che spiccano sugli altri.
Per esempio il giorno in cui mi sono avvicinata alla culla e mio figlio non aveva più cuffia, cerotti e flebo ma solo il sondino nasale e ho visto i lineamenti del suo viso per la prima volta, e mi è sembrato così adulto e così bello che mi hanno preso la gioia e lo stupore, e un inspiegabile orgoglio.
Oppure il giorno in cui ho scoperto che era stato trasferito dalla terapia intensiva alla subintensiva, e ho pianto, dietro i vetri del corridoio, pensando che il momento in cui l’avrei abbracciato si avvicinava ed ero così piena di fiducia e di speranza da non sentire i morsi dell’utero infuocare.
O ancora, c’è il giorno in cui nostra figlia è venuta con noi in ospedale per vedere suo fratello, della cui reale esistenza – sospetto – cominciava a dubitare; è lo stesso giorno in cui la pediatra del reparto mi ha comunicato che l’avrebbero dimesso nel pomeriggio e io mi sono girata verso il vetro e ho fatto cenno con la mano a mio marito: “Ce ne andiamo“. Una volta fuori abbiamo esultato per la gioia e abbiamo scritto ai nostri parenti e ai nostri amici dicendo loro che saremmo tornati a casa insieme a lui, e per festeggiare siamo andati a pranzo in via Santa Filomena. C’è quello stesso pomeriggio, in cui ci dicono che no, non è vero, non può ancora essere dimesso perché aspettano i risultati di un esame. E allora chiudiamo gli occhi, ci guardiamo senza nemmeno la forza di abbracciarci e in silenzio ci incamminiamo verso l’auto.
C’è il giorno in cui mi sono rivolta al suo santo, ti prego, fammelo portare a casa, ti vengo a trovare nella grotta, ti accendo un lume, ti dedico una promessa.
E poi c’è il giorno in cui è nato per la seconda volta.
È il 17 agosto. Quando l’infermiere ce lo porta, fuori dalla culla e coi vestiti addosso, non mi sembra vero. Lo prendo in braccio e chiudo gli occhi, respiro nel suo collo, gli sussurro finalmente, e subito mi sento di nuovo intera. Firmiamo tutte le carte, ascoltiamo le indicazioni della pediatra e finalmente usciamo, lasciandoci alle spalle questo posto a cui, pure, siamo grati. E dentro l’ascensore e poi fuori dall’ospedale, nel sole pomeridiano d’agosto, non faccio che studiarlo in ogni dettaglio, con incredulità e stupore. Me lo guardo tutto questo bambino nuvola, questo bambino animale, questo bambino che ha sfiorato l’abisso e ne è venuto fuori, questo bambino leone, questo bambino spada, questo bambino miele e pane, questo bambino dalle guance rosa e l’aria buona che è mio figlio. Quanto siamo stati fortunati, quanto presto siamo risaliti dal fondo dell’acqua, quanto affetto abbiamo ricevuto nei giorni in cui trattenevamo il fiato. Tengo questi pensieri per tutto il tragitto e poi ancora a casa, mentre dorme nella sua culla e io resto distesa accanto a lui. E mi pare di non avere mai provato questo amore. Lo misuro ed è molto più grande di me e mi sorprende che sia possibile amare tanto un essere umano così piccolo. E per un attimo sono certa che non potrei amare di più. Ma poi sorride.
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