L’unica passione della mia vita è stata la paura.
Thomas Hobbes
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È l’otto agosto e piove. Fuori della finestra della clinica il cielo è coperto di nubi, illuminato a tratti dai lampi e dalle luci al neon del distributore di benzina. Nella stanza ci siamo io e mia sorella. Io indosso il camice chirurgico e attendo di essere condotta in sala operatoria. Mia sorella passa da un canale all’altro della tv, poi si ferma sulle repliche di Friends, interrotte continuamente dalla pubblicità di Telethon. Guardo la puntata distrattamente, ho i pensieri altrove: questo cielo cupo, questa pioggia inaspettata nel pieno dell’estate, quest’attesa interminabile, questi bambini sulla sedia a rotelle che non mangiano da soli, nella mia testa diventano presagi.
Io credo nei presagi. Ci credo perché ho paura, vivo con la paura da che abbia memoria e vivere con lei significa riconoscerla in ogni segno, significa sapere che troverà sempre un modo per rivolgersi a te.
«Non pensare sempre al peggio», mi ripeto, cercando di ricondurre la realtà a un principio razionale. «È solo un temporale estivo, andrà tutto bene». Ma mi sbaglio.
Nella sala operatoria mi accompagna un’infermiera gentile. Quando siamo in ascensore mi chiede se è il primo figlio, se è maschio o femmina, dove si trova mio marito. Le rispondo con gratitudine, distrarmi mi serve. Ho una figlia di quattro anni; è un maschio; mio marito sta arrivando. Mi dice che lo chiameranno al momento del bagnetto, vorrei mandargli un messaggio per avvisarlo ma non ho con me il telefono, non ho nulla. L’infermiera mi porta in una piccola stanza dove resto un po’ di tempo in attesa, seduta tra un armadio e un’asta portaflebo. Realizzo che è la mia ultima volta col pancione. So che mi mancherà, ma so anche che guarderò mio figlio consapevole che ogni cosa ha il suo tempo e che ogni tempo, prima o poi, deve concludersi.
L’anestesista, un uomo di mezza età prossimo alla pensione, fatica a prendere il punto esatto. Lo sento rovistare nei pressi della colonna vertebrale mentre mi esorta con quella frase ridicola: “Mi faccia la gobbetta”. Il ginecologo mi stringe le spalle per aiutarmi a contenere il dolore, ma io grido senza vergogna perché soffro e voglio che lo sappiano. L’anestesia fa subito effetto, mi prende un formicolio alle gambe e so che presto dimenticherò di averle e quando le vedrò non le riconoscerò come mie, qualcuno le sposterà da un lettino all’altro, più bianche, più grosse, vicine al mio corpo senza farne parte.
Nella sala operatoria c’è un grande schermo. L’infermiere lo accende prima di cominciare a cucire. Hanno tirato fuori mio figlio in un tempo che mi è sembrato brevissimo, l’ho visto per una frazione di secondo, il ginecologo me l’ha posizionato davanti esclamando gioviale “Eccolo qui”. Piangeva, a gambe e braccia larghe, un bambino rospo uguale a tanti altri al mondo. Ma era mio figlio.
Sullo schermo posso vedere quello che succede nella stanza in cui lo hanno portato. Il pediatra lo mette su un piano d’appoggio, gli gira intorno, lo scruta, gli dà qualche colpo sul petto per farlo piangere ma lui non piange, non fa niente, sta immobile, con le gambe lunghe e la testa girata da una parte. «Non sei stato fermo un attimo per nove mesi e ora che fai?» penso fra me, mentre qualcosa si crepa nel petto, lentamente, comincia a franare.
Si avvicendano medici e infermieri. Spostano il bambino da un ripiano all’altro. Gli infilano un sondino. Piange. Lo tolgono: smette. Entrano ed escono a turno dalla stanza. Si radunano intorno al bambino, si dicono tra loro qualcosa che non posso sentire. Vedo le immagini in bianco e nero, in silenzio. L’ostetrica lava il bambino in modo sbrigativo, a parte i medici e il personale sanitario non c’è nessuno, mio marito non l’hanno chiamato. Leggo quell’assenza come la conferma che qualcosa non sta andando come dovrebbe. Poco dopo il ginecologo e il pediatra mi raggiungono in sala operatoria. Il bambino non respira bene, mi dicono, lo stanno portando al policlinico per i controlli del caso. Sicuramente non è niente di grave, adesso avvisiamo anche suo marito.
Li guardo, annuisco senza forze, addosso ho i resti del mondo.
Quando mi riportano in camera c’è solo mia sorella ad attendermi, e la culla vuota, con le lenzuola preparate la sera prima e il primo cambio dato alle ostetriche, non utilizzato, e il braccialetto col nome di mio figlio, non indossato. Con che cosa lo vestiranno, mi chiedo. Dov’è, dove sarà.
È in ambulanza. In una culla termica. Accompagnato da un’ostetrica. Preceduto da mio marito. Che lo vede, quando lo portano fuori dal mezzo. È cianotico. Non respira. “Condizioni generali gravi”, scriveranno sul foglio di dimissioni dieci giorni dopo. Non pensavo che ce l’avrebbe fatta, mi dirà mio marito dieci giorni dopo.
«Tolgo le lenzuola dalla culla?» chiede intanto mia sorella.
«Sì. Togli tutto».
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