Bussola

Non è bellissima?

I mesi estivi sono quelli in cui scrivo. D’inverno sono troppo impegnata a sopravvivere al freddo, alle cattive giornate, al malumore. Mi lascio assorbire dal lavoro e intanto penso a quanto sarà bello, d’estate, riprendermi il mio tempo. Non riesco mai a ritagliare degli spazi per me. Perché gli spazi di cui ho bisogno non possono essere ritagliati, devono essere spazi ampi, praterie, deserti, spazi che si mangiano altri spazi e che lo fanno senza riguardo e senza colpa. Non posso accontentarmi degli scampoli. È raro che possa permettermi di fare accadere questa sconfinatezza, soprattutto in inverno. Devo prima pensare alla bambina, preparare le lezioni, sistemare la casa. Perciò aspetto l’estate, quando le giornate sono più lunghe e meno piene.

D’estate trasferisco la mia postazione in balcone. Prendo il computer e l’alimentatore e me li porto fuori. Fuori abbiamo un tavolo di legno preso all’Ikea, piccolo e scomodo ma a cui per qualche motivo sono affezionata. Sul tavolo quest’anno ho steso una tovaglia che riproduce le ceramiche siciliane. È una tovaglia a motivi floreali azzurri, bianchi e arancioni. Mi piace molto e da quando l’ho comprata non faccio che chiedere a chi passa a farci visita se non la trovi bellissima.

Quasi nessuno viene a farci visita. Solo mio padre, mia sorella. I nostri amici sono tutti lontani. Qualche volta mi sembra di non averne affatto, o di averne pochi, e mi piacerebbe uscire, creare nuove occasioni d’incontro, migliorare nella conversazione. Qualche volta invece mi sembrano sufficienti e mi annoia l’idea di farmene di nuovi.

Non sempre, tuttavia, posso scrivere in balcone. Spesso fa troppo caldo, soprattutto al mattino. Il balcone dà a est e al mattino il sole che sorge dal mare infuoca tutta l’aria intorno. Si boccheggia, dalle sette in poi, e con quel caldo nessun pensiero vuole farsi raggiungere. Ma nel pomeriggio tardo, quando il respiro indulgente di qualche dio smuove un poco le foglie e i vestiti stesi ondeggiano come al rallentatore, si può godere di un’ombra gentile, che asseconda il battito e le parole.

Quando scrivo detesto tutto ciò che mi distoglie dalla scrittura. Lo investo di un odio feroce e offeso. Non risparmio nessuno, niente. Per questo, a volte, ho preferito non scrivere affatto. Provavo vergogna per quel sentimento altezzoso ed egoista che tagliava fuori ogni altro amore, che mi rendeva ingrata e degenere e non aveva niente di umano, ma qualcosa di infernale e sacro. Provo ancora quella vergogna, profondamente, ma il bisogno di scrivere la vince.

Quando mi blocco, durante la scrittura, provo un senso di vuoto, di frustrazione. Penso che non riuscirò più a proseguire, che forse ho esaurito gli argomenti. Comincio a rileggere il testo più volte, soprattutto le ultime frasi, sperando che mi venga un’idea per andare avanti, ma più lo rileggo più mi sembra un testo mediocre e penoso, che meriterebbe solo di essere cancellato. Da quel pantano in cui mi trovo, qualche volta, viene fuori un’idea che apre una nuova strada. Altre volte, invece, cancello tutto con risolutezza.

In generale, per me scrivere ha a che fare coi problemi. Non intendo dire che si scrive solo quando si ha un problema, ma che scrivere significa problematizzare. Scavare nel cuore delle cose, cercare un senso dove sembra non esserci, sporcarsi col buio, prendersi la briga di illuminare. Il senso di appagamento che si ricava, quando hai risolto il ritmo di una frase o di un verso, quando hai trovato il termine più calzante per ciò che intendevi dire, quando la punteggiatura gira come volevi tu, quando la forma sposa bene il contenuto, quando scopri di essere riuscito a dare corpo a un’intenzione vaga, quasi inafferrabile, il senso di appagamento che si ricava è intimo, profondo e solo chi l’ha provato per le stesse ragioni può capirlo. Anche per questo, a volte, chi scrive avverte una certa solitudine. Ma anche per questo vi è spesso un’affinità spontanea, tra chi scrive, che non ha bisogno di parole.

Ho un lettore ideale. Muta a seconda di ciò che scrivo, ma ogni mio lettore ideale esiste davvero, ha un nome e una faccia e una vita reale di cui spesso so molto poco. Quasi tutto quello che ho scritto, che scrivo, ha l’obiettivo di conquistarlo. Di distruggerlo, di ferirlo, di sedurlo, di raccontargli l’amore che provo, di piegargli le ginocchia, di avvicinarlo a me, di mostrargli di cosa sono capace, di stupirlo. Non sempre penso a lui, quando scrivo. Ma quando penso a lui quello che scrivo ha una foggia migliore. Per questo non riesco a liberarmene. Perché mi rende migliore.

Glielo vorrei dire, qui sul balcone, mentre ci sciogliamo di caldo come due gelati. E poi mostrargli questa nuova tovaglia così colorata, piena di luce. Chiedergli se non la trova bellissima.

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