Ritratti

Cristina

La prima volta che sono stata convocata per una supplenza è stato a Carpi. In Sicilia non mi avrebbero mai chiamata, troppa gente in graduatoria. Se sei un’aspirante docente del Sud ti tocca almeno un anno di gavetta al Nord, è risaputo. Io al Nord non ci volevo andare. Quando ho dovuto fare l’inserimento in graduatoria ho scelto l’Emilia Romagna: la regione del nord più a sud d’Italia, e poi si mangia bene. Non ho scelto Bologna – il capoluogo? non mi avrebbero mai chiamata – ma Modena, vicina a Bologna e facilmente raggiungibile, tutto sommato, dall’aeroporto. Non ho parenti, in Emilia Romagna, amici, conoscenti, nessuno. La metto, questa provincia, e poi spero che non mi chiamino mai.

Invece mi chiamano, alla fine di settembre. Prenoto un biglietto e un appartamento su Air B&B, lenzuola pulite e dispensa vuota. La mattina del mio primo giorno di scuola da insegnante esco di casa con Skin nelle cuffie, mi faccio due chilometri a piedi e ho l’ansia. Sono in un istituto professionale, mi danno tre prime, la segretaria mi dice che tre prime al primo incarico sono un’ottima cosa. Conosco la vicepreside, pugliese, e il vicepreside, calabrese. Entro nella mia prima classe, la ID, quasi tutte femmine – indirizzo Moda – tranne un ragazzo cinese che, mi dicono le ragazze, al momento dell’iscrizione ha sbagliato corso. La prima cosa che penso, appena varco la soglia, è: e ora a queste che dico?

Ma va tutto bene, nella ID e nella IB – l’altra classe a indirizzo Moda, numerosa, vivace – va tutto bene. La classe in cui mi metto le mani ai capelli e non so da che parte cominciare è la IG, indirizzo Meccanico: ventisette maschi scalmanati tra i quattordici e diciassette anni. Qualche collega mi dice: devi conoscere la coordinatrice, si chiama Cristina, è di matematica.

Cristina la conosco una mattina davanti alla macchina fotocopiatrice. Ha dei ricci radi e grigi, un corpo alto e magro, un sorriso aperto, accogliente e, soprattutto, ai piedi ha delle Converse verdi sdrucite. Quando le guardo le scarpe penso: questa mi piace, andremo d’accordo. «Nelle prime sono piccoli selvaggi, prima di tutto li devi addomesticare», ma lo dice con allegria, con la leggerezza dell’esperienza. Leghiamo subito, non so bene perché, non so bene parlando di cosa, ma ce lo confidiamo un giorno, guardandoci negli occhi: Mi sei piaciuta subito. Anche tu.

Intanto ho dovuto lasciare l’appartamento, ma non ho ancora trovato casa: nessuno che affitti per meno di due anni, nessuno che non voglia almeno quattro mensilità di anticipo. Ripiego quindi su un’affittacamere in centro, la proprietaria è gentile ma nella stanza non c’è nemmeno la macchinetta del caffè, a pranzo prendo un pezzo di focaccia in un forno lì vicino o mangio da sola in una trattoria dai prezzi contenuti. Quei primi giorni sono un colpo in testa: va via la luce mentre preparo i test d’ingresso, mi viene il ciclo, la febbre, non ho ancora fatto la richiesta per il medico, non so che fare e quindi mi imbottisco di medicine, vado a scuola e mi dico “passerà”, ma penso “voglio tornare a casa”.

Poi cominciano a succedere delle cose belle, la prima: il Festival del Racconto.

Mi invita Cristina e ci incontriamo lì. Io me la ricordo come una giornata luminosa, ma forse era lei. Quando scopre che alloggio alla modica cifra di trentacinque euro a notte le viene sul volto un’espressione che dice ma non è possibile. Mi chiama qualche ora dopo esserci salutate: ho un appartamento libero di fronte al mio, se ti va ti puoi appoggiare lì finché non ne trovi uno, non mi devi niente, ti paghi solo le utenze. Mi aiuta coi bagagli, mi fa fare il giro della casa, e da quel momento diventiamo vicine di pianerottolo. Da quel momento per me Cristina diventa “generosità”: non sapeva niente di me, potevo essere chiunque, poteva pentirsi del suo gesto, ma l’ha fatto, mi ha aiutata, mi ha aiutata concretamente. La seconda: diventiamo amiche.

All’inizio parliamo dei nostri alunni, delle incombenze di lavoro. Poi ci facciamo spazio l’una nella vita dell’altra, con molta discrezione. La domenica mi invita a pranzo da lei, conosco suo marito e i suoi figli. Detesta cucinare, sostiene che quel tempo che si impiega a cucinare si potrebbe impiegare per altro, leggere, passeggiare. Io sorrido, penso che un po’ ha ragione. Le piace andare in bicicletta, invece, ama i libri, tiene attaccata al frigo una poesia e le sento dire spesso una frase in dialetto che imparo subito: ma c’sa dit?

Un giorno siamo insieme sul suo balcone e lei mi dice, con sincera passione, delle parole che non dimenticherò mai: il nostro è il lavoro più bello del mondo, perché abbiamo a che fare con materiale umano, capisci? E io capisco, anche questo ci lega, la consapevolezza che nello spazio di un’aula possiamo costruire o distruggere con una sola parola, e il desiderio fortissimo di voler costruire. Tra un bicchiere d’acqua e un caffè mi esorta a creare dei legami perché dovrò stare lì per un anno e ne va della qualità della mia vita. Nemmeno questo dimenticherò: l’attenzione verso qualcosa di più della semplice sopravvivenza, la cura della persona nel suo essere umano, l’importanza, anche, di essere felici. Tutte cose che fino a quel momento non avevo mai preso in considerazione.

In quei giorni, a mia insaputa, si scatena una staffetta di solidarietà tra i colleghi dell’istituto. Chiunque mi incontri, a scuola, mi chiede se sia io a cercare casa, finché un giorno, mentre faccio lezione in ID, bussa alla porta il collega di Diritto: ho un appartamento qui vicino, lo sto sistemando ma se vuoi intanto te lo mostro. La sistemazione richiederà più di un mese. Nel frattempo scopro che la mia supplenza in quell’istituto professionale è finita: una collega, “l’avente diritto”, prenderà il mio posto. La prima persona a cui lo dico, afflitta dentro e fuori, è Cristina. Nemmeno lei ci può credere.

Finirò in un’altra scuola carpigiana, conoscerò altre colleghe, starò bene, continuerò a frequentare Cristina. Verrà a trovarmi nella casa nuova, un giorno le preparerò gli arancini e li porterò da lei, nel generale giubilo domestico. Trascorreranno i mesi, nella nebbia dell’alba, nei gradi sotto zero, abbraccerò e sarò abbracciata, avrò accanto qualcuno che mi conforti dalle preoccupazioni, non vedrò mai la neve, arriverà la primavera, desidererò l’estate e quel tornare che viene nel cuore di chi è partito. E poi verrà il giorno dei saluti e io sarò con Cristina, nella sua cucina, siederemo l’una di fronte all’altra e tireremo le somme. Parleremo del mio matrimonio, dell’anno appena trascorso, dei momenti insieme e mentre ci parleremo, con trasporto, con tutto il bene che abbiamo seminato e raccolto nei mesi, sapremo che molto probabilmente non ci rivedremo più. E ci abbracceremo, con gli occhi lucidi ma senza piangere, perché piangere una donna del Nord non s’è mai vista e una del Sud meno che mai, e ci raccomanderemo l’una all’altra, proponendoci di non perderci, sapendo che ci perderemo.

Ho avuto una famiglia a Carpi. Sono arrivata da sola, sono andata via con una folla nel cuore. La mia famiglia era fatta di carpigiani, pugliesi, calabresi, romeni. Con quella famiglia ho condiviso angosce e momenti di gioia, arancini e lasagne prese alla gastronomia, aperitivi e consigli di classe. Da quella famiglia ho imparato il sostegno, il bene senza condizioni, l’accoglienza. Cristina è stata la prima, per me: una sorella. L’affetto che ho ricevuto, in quei mesi, in quei luoghi, non lo posso dimenticare. La mia Emilia Romagna, la mia Carpi, la mia altra casa, la mia altra famiglia, la mia Cristina. Tutto diventerà in me ricordo vivo, quintessenza, parte indissolubile di quel che sono.

E pensare che al Nord nemmeno ci volevo andare.

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