La prima volta che la incontro non la vedo. Sale in macchina sul sedile posteriore, io davanti e alla guida mia sorella. Le diamo un passaggio per andare al lavoro. Lavoriamo tutte e tre allo stesso posto, scriviamo delle schede sulle opere d’arte di alcuni musei. Nell’auto c’è una quarta passeggera, anche lei lavora con noi, siamo amiche da un paio d’anni e non so ancora che presto quell’amicizia finirà.
A settembre l’aria di Catania è un fuoco, il calore si confonde con il rumore del traffico, dei clacson, dei motorini che sfrecciano a sinistra e a destra della nostra auto. Si confonde con la luce indolente del mattino, che come un Dio lontano illumina un mondo che in fondo non gli appartiene.
Durante il tragitto penso a quante altre persone col suo nome conosca: nessuna. Mi torna in mente solo un’inserviente della mensa alle elementari, passo pesante, guance rotonde, occhi stretti. Questa Gilda invece ha gli occhi grandi. Occhi che sembrano un portale verso un’altra dimensione, intima e vasta. Un profilo affilato, egizio, labbra sottili, un sorriso timido che quando si apre sfida il mondo. Il passo leggero di un corpo quasi invisibile. Non ha niente di quell’altra Gilda, anzi sì: è buona, come lei. Ma anche questo non lo so ancora.
Per diversi mesi le nostre conversazioni sono conversazioni da colleghe di lavoro. Parliamo di lavoro, di altri colleghi di lavoro, di contratti di lavoro, di orari di lavoro, di novità e lamentele sul lavoro. Poi un giorno, mentre durante la pausa pranzo al centro commerciale ci avviamo nel posto in cui mangiamo di solito, scopriamo di avere una cosa in comune, una cosa che non possiamo dire ad alta voce: non sopportiamo la quarta passeggera.
«Io credevo che foste amiche.»
«Lo eravamo. Io pensavo ti stesse simpatica.»
«Mai stata.»
Da quel momento diventiamo due vecchie comari. Quell’intolleranza comune ci avvicina, ci rende complici, diventa il pretesto per scoprire altre cose di noi, cose che non ci eravamo dette, cose che abitualmente non diciamo. Trascorreremo più tempo insieme, anche al di fuori del lavoro, andremo all’Ostello a parlare del nostro futuro incerto, berremo birre e rideremo, inventeremo scuse per pranzare da sole, staremo insieme sul mio balcone a inondarci di chiacchiere davanti ai resti del teatro romano, e ridendo ci diremo più volte “ma ci pensi che siamo diventate amiche grazie all’odio?”.
Scoprirò di essere incinta il giorno del suo compleanno. Glielo dirò una sera, appena uscite dall’ufficio. Non ricordo le parole che ho usato, ma ricordo il suo abbraccio, lei che trema per l’emozione e io che sento il suo cuore battere fortissimo contro il mio. Quando è nata mia figlia, lei c’era. Quando è morta mia madre, lei c’era. E anche se adesso ci sentiamo poco e ci vediamo meno di quanto vorremmo, io so che lei c’è. Che il suo cuore, in qualche modo, batte ancora forte contro il mio.