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Sciara, di Marina Mongiovì – Intervista con l’autrice

Nella controra torrida e sonnolenta dell’estate prendono vita e fuoco i racconti di Sciara, libro d’esordio di Marina Mongiovì, edito dalla casa editrice Kalós. Una raccolta che fin dal titolo rimanda alla suggestione di una Sicilia aspra e incandescente, che con le sue storie luminose e nere segna con dolcezza, ma senza appello, la memoria di chi la abita.

Una raccolta molto particolare, in cui ogni storia è intimamente legata all’altra e quei personaggi che appaiono in un racconto solo per poche righe diventano protagonisti del successivo, in un abile gioco di rimandi che dona loro corpo e spessore, in una parola: identità. È così che ogni racconto diventa il tassello di una narrazione più vasta, che ricostruisce la storia di un paese intero e dei suoi abitanti, la storia di un tempo condiviso, consumato mentre lo si vive o lo si rinnega fino all’ultimo.

Tutto ha inizio in un afoso pomeriggio estivo, quando Teresa si reca a casa della nonna insieme alle altre donne della famiglia per le tradizionali conserve di pomodoro. Da questo consesso femminile e domestico scaturiscono i racconti di Teresa: vecchie dicerie, antiche storie di adulteri e omicidi, di sante e prostitute, di emarginati, di devozione religiosa e profane superstizioni; e zie mavare, cavalli senza testa, neonate coi denti e tutto il restante corredo di quei personaggi cari e disallineati che spesso popolano i paesi e le fantasticherie della nostra infanzia.

Marina, il tuo è un esordio felice: pur essendo la tua prima opera, Sciara mostra una capacità narrativa consapevole e matura. Come nasce l’idea di questo libro? 

Sciara più che da un’idea è nato da un’esigenza. Tre anni fa, dopo essermi allontanata dalla scrittura per tanto tempo, ho sentito il bisogno di ritornare a scrivere. Ne è venuto fuori un racconto, in cui ho recuperato dalla memoria una leggenda che mi raccontava la mia nonna. Mi sono divertita molto e ne ho scritto un altro e poi un altro ancora. Presto mi sono resa conto che erano tutti ambientati negli stessi luoghi, con personaggi e tematiche che si ripetevano. Da qui, è nata l’idea di farne un unico percorso e di collegarli l’uno all’altro. 

La tua è una narrazione ricca di immagini. Sembra che tu nel tempo le abbia catalogate pazientemente e che queste si siano poi stratificate lentamente nella tua memoria finché non hai dato loro una voce, rendendole vive sulla pagina. Forse mi faccio influenzare dal sapere che tu sei anche una talentuosa fotografa, tanto che nel 2021 Letizia Battaglia ha scelto una tua foto per una mostra, ma mi interessa molto sapere che tipo di rapporto c’è, per te, tra immagine e scrittura.

A differenza della scrittura, non ho mai smesso di fotografare. La fotografia è un istante, è rubare un fotogramma al fluire delle cose che hai attorno. La scrittura richiede tempo, elaborazione, riflessione. Eppure sono, per me, complementari. Sia con le immagini che con la scrittura cerco di fermare le luci e le ombre di quello che mi scorre davanti. È un gioco di riflessi, di forme, di rimandi che si intrecciano. Da alcune immagini sono nati dei racconti e da pagine che ho scritto ho realizzato degli scatti. Forse è una cosa difficile da spiegare ma che io sento molto naturale.

“Sta finendo un’altra estate, così uguale alle altre”. Rosalia guarda fuori e continua: “Sai, a volte ho paura di guardarmi indietro e non riuscire a distinguerle, come fossero un’unica ed estenuante stagione”. Sono le parole che pronuncia uno dei tuoi personaggi, ed è impossibile non notare che tutti i racconti di Sciara sono ambientati in estate, e anche se hanno luogo in tempi diversi sembra davvero che accadano in “un’unica ed estenuante stagione”. Come mai hai scelto proprio l’estate?

Ho un rapporto di amore e odio con l’estate. Trovo che sia la stagione più frivola e allo stesso tempo più “dolorosa”. Qui in Sicilia le estati sono infinite: la calura che abbatte, la luce accecante, la noia che si vive nei paesi di provincia. E poi è la stagione più onirica di tutte, con lo Scirocco che ti porta via dopopranzo.

Nel tuo libro ci sono molti riferimenti alla religione e alle superstizioni, maghi (in)capaci di levare il malocchio, zie mavare, ma anche doni votivi e riferimenti a feste religiose a metà tra il folklore e la devozione. E tutto si tiene insieme con grande equilibrio, restituendo l’immagine di una Sicilia che anche in queste pratiche affonda le sue radici. Rispetto a questo tema, quanto hai attinto dall’immaginario collettivo e quanto invece fa parte del tuo immaginario personale, della tua diretta esperienza? 

Ho ricordi lontani di rituali contro il malocchio, bacinelle lasciate fuori la notte di San Giovanni, televisioni locali che passavano maghi dai poteri eccezionali, ceri accesi sugli altari di santi e madonne e preti che erano istituzioni incrollabili. 
Ho osservato e ascoltato molto gli anziani, durante la mia infanzia. E poi ovviamente ho ripreso tanto anche da quello che appartiene all’immaginario collettivo.

La tua prosa è molto composta, animata da un lessico nitido e preciso e da una sintassi armoniosa, e questo credo che la renda estremamente elegante. Quanto lavoro ha richiesto riuscire ad essere così “centrata” rispetto al testo? E qual è stata la difficoltà maggiore che invece hai incontrato durante la scrittura?

Sono lusingata dalle tue parole, un giudizio così accurato sulla mia scrittura non può che rendermi felice. La prima stesura ha richiesto un sei mesi di lavoro, altrettanti ce ne sono voluti per lavorare artigianalmente al testo. Rileggendo, modificando, aggiungendo ed eliminando. Ho fatto tutto con grande naturalezza, nonostante la poca esperienza con la scrittura creativa. Forse la difficoltà che ho incontrato è stata far parlare tra loro i personaggi. Non mi ero mai approcciata al dialogo.

Ritorno sui talenti con una domanda un po’ sciocca: hai collaborato con diverse testate giornalistiche, hai pubblicato dei racconti su varie riviste, del tuo talento fotografico abbiamo già detto, ho visto poi una storia su Instagram in cui preparavi un’appetitosa parmigiana, quindi ti chiedo: c’è qualcosa che proprio non sai fare?

Siete comodi? Comincio con un lungo elenco? 
Va bene, rispondo con le prime che mi vengono in mente. Sono lontana da ogni forma di sport e, nonostante il diploma di ragioneria, non so far di conto. 

L’ultima domanda è una “non-domanda”: ti chiedo quindi di rispondere a una domanda che non ti ho fatto ma che ti sarebbe piaciuto ricevere.

Perché proprio “Sciara”?

Non solo perché è un paesaggio a me familiare e che caratterizza i miei luoghi di origine. Ma perché rappresenta un deserto, un limite invalicabile, un confine che ci allontana dal mare. Eppure, c’è chi ci mette le radici, come le ginestre o Fofò. È terra arida e fertile insieme; roccia immobile che prima è stata magma in movimento. La sciara è per me simbolo, di quei luoghi, di certe storie e della tempra di certi personaggi. 

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