Bussola

Il punto di rottura

Mick Haupt via Unsplash

*

Eppure deve esserci stato un punto di rottura, un momento in cui ho perso l’incanto.

Una sera ero in macchina con Manu, lei guidava piano coi fendinebbia accesi. Intorno era tutto denso. Tornavamo da Correggio, o da Soliera, o da Modena, non ricordo. Con Manu visitavo sempre posti che mi sembravano bellissimi, forse era una sua peculiare magia. Quella sera, attraversando la nebbia come un sottomarino attraversa le acque, le parlavo di un romanzo che non avrei mai scritto. Le dicevo che non riuscivo nemmeno a cominciare, che avevo paura. Lei, senza liquidarmi con frasi di circostanza, mi chiedeva se avessi mai provato. Non avevo mai provato. Allora, mi disse, o provi o la scrittura diventa solo una velleità. Velleità, mi ripetei in testa quella sera, e nei giorni, nei mesi, negli anni successivi. Come una colpa che si assommava ad altre.

Erano quelli gli stessi giorni in cui, dentro di me, i sentimenti si definivano e si confondevano al tempo stesso. Tenevo un’agenda dove trascrivevo le poesie più belle che mi capitava di leggere. Prendevo i libri in prestito alla Loria, nei pomeriggi in cui non avevo lavoro grosso da preparare. Tornavo a casa col mio bottino, percorrendo a piedi un chilometro o due – sono sempre state negata nel calcolare le distanze – in un corpo sempre più magro, nonostante le tigelle col pesto di lardo e la pizza precotta il giovedì sera e i biscotti nel cassetto del comodino, per le notti in cui una solitudine nera prendeva il sopravvento. Arrivavo da una parte all’altra di una città che non conoscevo, i cui confini erano segnati dalla scuola, dalla biblioteca, dalla stazione e dallo studio di un dentista. Cosa c’era oltre quei limiti? Boschi? Centri commerciali? Case popolari? Non ne avevo idea, non mi interessava, sopravvivevo, malgrado le parole di Cristina che nei primi giorni della mia permanenza carpigana mi aveva invitato a stringere legami, creare amicizie, perché avrei dovuto trascorrere lì l’intero anno scolastico e si trattava della qualità della mia vita.

Le amicizie le strinsi, poi. Uscivo con Manu anche se ero stata trasferita in un’altra scuola. Pranzavo in un ristorante self service con le mie colleghe nuove. La mia collega brindisina mi invitava a pranzo la domenica e mangiavo con la sua famiglia. Preparavo gli arancini per Cristina e chiacchieravamo insieme sul suo balcone. Sì, ho stretto legami che durano tuttora. Che annullano davvero il tempo e le distanze, che testimoniano l’affetto, il bene che diamo e riceviamo senza aspettarci un tornaconto. Era questo che avevo trovato a Carpi. Ma cosa avevo perduto?

Un momento c’è, in effetti. Un momento in cui mi sono abbandonata, in cui mi sono lasciata sopraffare dall’evidenza del reale. Erano quelli i giorni in cui i sentimenti si definivano e si confondevano allo stesso tempo, e mio nonno si preparava a lasciare la vita. Ma io, che avevo trascorso gli ultimi due anni a prepararmi a mia volta, non ero pronta. Non ero pronta a lasciare andare l’uomo che mi aveva insegnato tutto, il padre, l’amico, l’unico uomo che non mi aveva mai tradita o delusa, l’unico che mi aveva sempre incoraggiata, gratificata, che non solo non mi aveva mai fatto sentire sbagliata ma che addirittura mi aveva fatto sentire all’altezza di me stessa, che riconosceva in me un valore che io non vedevo e che non avrei mai visto. Ricordo questo momento in cui, tenendo in mano l’agenda con le poesie di Emily Dickinson, Silvia Bre, Elizabeth Bishop, ho pensato: non serve a niente. Le parole che ci avevano tenuto insieme per tutta la vita, che ci avevano dato voce e forza, alle quali ci eravamo aggrappati nella solitudine e nello sconforto, che avevamo imparato, che avevamo citato nei discorsi più improbabili, che ci eravamo restituiti a vicenda quando la memoria vacillava, quelle parole non erano in grado di tenerci in vita, erano inservibili, inutili.

Provavo, in quegli stessi giorni – e prima e dopo – a dare loro un nuovo senso. Perché non è ammissibile che un amore, di qualunque natura, possa finire. Non è ammissibile ritrovarsi un giorno a perdere tutto quello in cui avevi creduto. Eppure lo vedevo, lo sentivo: non scorrevano più come prima, non mi venivano in soccorso quando le invocavo, non stavano ferme sulla pagina, non rispettavano i tempi e gli spazi, andavano a capo grossolanamente, non erano quelle che cercavo. Mi cercavo, e non c’ero. Si deve pur smettere, a un certo punto. Se non troviamo quello che cerchiamo forse è perché non siamo destinati a trovarlo. E fuori, del resto, ci sono altre cose a cui pensare: ci sono i PEI e i PDF, ci sono i verbali dei consigli di classe, ci sono le schede semplificate da preparare, ci sono altri interessi, ci sono gli altri libri e, dopotutto, posso sempre restare una lettrice, non è poco.

Ma scrivere non era un mio interesse. Era la mia natura. Quando l’ho capito, molto tempo dopo, ho provato a ricostruirmi. Era come rimettersi da una lunga malattia, come quel corpo che privato di un arto deve imparare di nuovo a camminare, a lavarsi, a stare in piedi. Nel frattempo molte cose erano cambiate. La morte e la vita si erano abbattute sulla mia esistenza con la stessa ferocia. Sono andata a cercarmi nel punto in cui mi ero lasciata. Non ero più lì. Ero un’altra donna, avevo un altro corpo. Un corpo che si era riempito e svuotato, che si era aperto e richiuso e voleva nasconderle, quelle cicatrici. Avevo una faccia che, nonostante le tempeste, aveva tenuto. Solo, si cominciava a intravedere, tra un sopracciglio e l’altro, quella stessa ruga verticale che segnava il volto di mia madre. La ruga delle preoccupazioni, della concentrazione ostinata nel voler risolvere problemi che non hanno soluzione. Il giorno in cui è morta, piangendo davanti allo specchio del bagno, avevo chiesto a un vago Dio di trasfigurare la mia faccia nella sua, per averla sempre con me. Ecco che dopo pochi anni venivo accontentata.

Erano questi avvenimenti, dunque, queste morti, queste nascite, queste trasformazioni, altri punti di rottura enormi o impercettibili che si aggiungevano al primo. Che mi tagliavano via dal passato e rendevano irriconoscibile tanto lui quanto me. Che cosa ne è della nostra natura quando la rinneghiamo? Forse, in un lampo d’orgoglio, si nasconde negli anfratti di quel che siamo stati senza concederci la possibilità di recuperarla? O forse, quotidianamente, siamo noi che continuiamo a ucciderla, a relegarla a un verbo passato, calpestandola e ingannandoci?

Dalla finestra della mia cucina si vede uno scorcio di mare. Nei giorni tersi il sole brilla sull’acqua, tanto che la sua luce quasi disperde l’azzurro. Nel cortile si rincorrono i gatti in calore, in cerca di una tregua. L’albero di cui non conosco il nome continua a crescere nel giardino dei vicini; periodicamente qualcuno ne taglia i rami più insolenti. Le persiane bianche della casa di villeggiatura restano serrate durante tutto l’inverno. In certi periodi dell’anno a cui non ho prestato attenzione stormi brevi e rapidi attraversano il cielo. Il frangipane piantato un anno fa non vuole saperne di fiorire. Il rosmarino viene bruciato ciclicamente dalle ondate di sole. Io so che tutto questo mi parla. Ne sento la voce. Risuona nei miei occhi. Ma tutto si ferma un passo prima dal significare.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...