Letteratura e altre arti

La restanza, di Vito Teti

«Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo; avverto spesso la frustrazione del restare per cambiare un mondo che non sembra voler cambiare, che anzi sembra scomparire e morire giorno dopo giorno, ed ecco che mi accingo a raccontare il senso, il disagio, la bellezza di vivere nel luogo da cui osservo il mondo.»

La scorsa estate ho letto La restanza, di Vito Teti. Due volte. La prima sull’eReader, la seconda su carta, tenendo accanto una matita, sottolineando, cerchiando, prendendo note. L’ho letto con due sguardi: quello di chi è partita e quello di chi è tornata, scegliendo di restare. Perché sono rimasta? Che cos’è questa restanza?

«La restanza […] è il sentimento di chi àncora il suo corpo ad un luogo e fa diaspora con la mente», scrive Teti. Restanza è una parola che mi parla. Dice nella sua radice le radici di chi resta e nella desinenza prende il largo, spatria senza paura. Restituisce l’impressione di un viaggio immobile, uno sguardo che naviga tra i vicoli e le case di un paese, avanti e indietro nel tempo, e non rimpiange il passato ma s’impegna a immaginare un futuro, a costruirlo. È una parola che coniuga le due anime dell’essere umano, da una parte l’invincibile desiderio dell’avventura e dall’altra quello di riconoscersi nel luogo che abitiamo e che delinea anche la nostra identità.

Il movimento dell’uomo si svolge da sempre secondo due tempi: uno è quello dell’azione, l’altro quello della stasi. La letteratura ha più frequentemente cantato il primo, reale o metaforico, esplorativo o immaginifico. Chi resta, semplicemente, sparisce nell’attesa: «chi resta non scintilla né sogna», afferma l’antropologo. Eppure, come nota ancora l’autore, «il viaggio di Ulisse non avrebbe senso senza l’attesa di Penelope […]. La modernità nasce con il mito dell’eroe che parte e ritorna e con il mito della donna che resta ferma e attende». Se nel poema omerico i due ruoli sono distinti, nella nostra vita di uomini e donne senza epiteti, senza destino nel nome, la dicotomia tra chi parte e chi resta non è mai così definita. A volte restiamo, a volte andiamo via. Ed è poi vero che la conoscenza, la verità si rivelano solo a chi ha l’ardire di andar via? Non vi è forse un’altra forma di saggezza, di conoscenza, nel rimanere? Vedere il volto del paese che invecchia, le crepe delle abitazioni come rughe che ne solcano la fronte, strade e quartieri che si svuotano o si ripopolano assecondando le correnti umane, adattarsi o resistere a quel vento che scompiglia le cose per come le conoscevamo, non è anche questo un viaggio? Non ci mette alla prova? Non ci costringe continuamente ad abbandonare le diverse versioni di noi stessi per fondarne di nuove?

Impariamo qualcosa attorno a quelle case. Attorno alle persone che vi abitano. È il senso stesso di appartenere a una comunità, se di quella comunità riusciamo a farne parte. Volgere il nostro sguardo verso gli altri restituendolo così anche a noi stessi. Se questo è vero in generale, diventa ancora più vero per la gente del Sud. Il viaggio di Teti – il suo viaggio immobile – esplora l’anima della sua Calabria, della Puglia, della Sicilia, «terra che mette dentro chi la abita il fuoco, il sole e il mare dei suoi colori». E in quelle terre aspre, che si rivelano solo a chi ha la pazienza di ascoltare, bisogna camminare ai margini, a cuore aperto, perché è lì che si annida il senso del restare. Ma chi con l’intento di restare torna, s’illude di abitare un tempo già sgretolato o destinato a sgretolarsi, un tempo in cui la nostra immagine non esiste più, le persone che abbiamo amato sono andate perdute o saranno perdute e quel vuoto sospinge il piede a ogni passo.

Per me che sono nata senza casa, che dappertutto mi sono sentita ospite o straniera, restare significa abitare il passato con la vaga speranza di un futuro luminoso. Significa avere reso mobili le mie radici, averle interrate ovunque e sempre averle strappate via a mani nude. Eppure qualcosa di quel legno rimane ad abitare il nostro sentire. Siamo quelli che abbiamo amato, i luoghi in cui abbiamo amato, «siamo», scrive ancora Teti, «costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza di esistere al di fuori e al di là del perimetro noto.»

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