Ti sembrerò
un’emerita idiota,
facili entusiasmi,
improvvisi avvilimenti.
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Carmen Consoli, Novembre ’99 (L’isola del tesoro)
*
Per più di vent’anni ho litigato furiosamente con mio padre. Eravamo sempre impegnati in una guerra continua, aperta o silenziosa, ma interrotta mai. Una delle volte in cui la sua voce tuonava per le stanze e la mia competeva con quel suo largo boato, pronunciò una frase che mi franò nel cuore: «Non troverai mai nessuno che ti sopporti». A metà tra la premonizione e la maledizione, quelle parole si aprirono una strada nella mia testa e mi tormentarono a lungo. Per diversi anni, tuttavia, mi sembrò di essere riuscita a scamparla. Ma negli ultimi tempi ho imparato che se le premonizioni a volte si rivelano inesatte, alle maledizioni non si può sfuggire.
A quella mano che non si stanca di dispensare doni e disgrazie, per contro, chiedevo qualcosa di altissimo: qualcuno che non solo mi sopportasse, ma che fosse in grado di disinnescarmi. Come molti, infatti, ho anch’io le mie guerre. E se da una parte le combatto, dall’altra le alimento: i miei nemici sono bestie fameliche che tento di domare o spettri sconvolti con la mia stessa faccia. Qualche volta vinco, ma porto addosso i segni della battaglia: occhi stanchi, occhiaie profonde. Più spesso a vincere sono loro. Allora mi lascio occupare come un terra bruciata, la tristezza si prende ogni cosa e l’aria è invasa da una mestizia che anche tu che leggi – se è vero che mi leggi – riconosci e da quella mestizia prendi le distanze, quasi ne temessi il contagio, mentre a me basterebbe a volte una carezza sul dorso della mano.
Questa tristezza non l’ho mai travestita, ma, vergognandomene, ho provato spesso a nasconderla. Come pure il resto: l’ansia, la rabbia, la paura. Esercitandomi così bene nell’intento che mi definiscono mite, una persona pacata, che non si lascia andare agli eccessi. Nei giorni degli esami all’università ero l’invidia di quelli a cui tremavano le mani, come fai tu a essere così tranquilla, mi dicevano. E io invece avevo già vomitato quattro volte prima di uscire di casa e la notte avevo pianto tutta la mia insufficienza sul cuscino.
(Due sole sono le occasioni in cui si vede quello che sono veramente e una è quando scrivo. Allora snudo il fuoco dalle vene e lascio che scorra ciò che deve, lava e dolore, e riconosco a quel tale la ragione – io convinta di non essere vista – che un giorno mi disse tu sei un poeta e dentro di te hai l’ira di Dio.)
E poi, in tutte le giornate azzurre, quando la felicità vorrebbe scoprire i suoi denti, io glielo nego sempre, sempre le serro le labbra, aprendomi nel petto quella fiala di veleno che guasta della gioia ogni sapore. Questo senso di espiazione solo conosco, perché ogni momento felice si paga ed è sciocco chi s’illude del contrario. Questa durezza, questo rigore con cui mi punisco per una colpa che non ho ancora commesso mi piega la fronte e recide le ginocchia; divento severa e mi rabbuio, rovinando anche agli altri la tentazione della felicità. Quindi mi rivolgo a te che leggi, se è vero che mi leggi: non chiedermi di essere felice, non cercare di rendermi felice. Dimmi piuttosto che essere felici non è importante, dimmelo col sorriso, baciami sulla fronte, e sii sicuro nel dirmelo, non vacillare, vendimi questa bugia come la più preziosa delle verità.
Vado e vengo, quindi, da un territorio ostile che mio malgrado conosco benissimo, ma non è quello che vorrei per me. Per me vorrei la leggerezza delle storie quando iniziano, quella giocosa allegria dei debuttanti, la sapienza delle mani che toccano l’altro corpo prima per farlo ridere e poi per aprirlo al desiderio. Mentre questo desiderio di svuotare la carne dalla pietra e farla piuma, pura luce, in me diventa bufera d’ironia. Me l’ha insegnato mia madre con l’esempio: dileggiare perfino la tragedia. La mia ironia è un dono democratico, non risparmia niente, non ha pietà di nessuno. In più di un’occasione mi ha salvata. Chi non mi conosce ancora bene, può capitare che si senta offeso. Offeso, a volte, anche chi pensavo mi conoscesse bene. Dei primi non mi interessa. Per i secondi mi dispiaccio. Quando la mia ironia, che so bene essere tagliente, non viene compresa mi sento abbandonata. Allora fai così, tu che mi leggi: sorridi ancora una volta, prendimi poco sul serio come faccio anch’io. Cercami un punto del corpo dove si possa ridere insieme e soprassiedi sulle mie parole.
E quando mi chiudo nella solitudine, perché la mia testa reclama silenzio, pulizia e silenzio, vorrei che nessuno si chiedesse dove sono. Ho bisogno solo di essere dimenticata, guardata ma dimenticata. Capita tuttavia che talvolta sia necessario che qualcuno abbia la voglia e la forza e la pazienza di venire a recuperarmi dal pozzo in cui mi trovo, perché ho trascorso al buio troppo tempo e non so più individuare la strada del ritorno. Ma io non so dire il punto in cui uno debba smettere di rispettare il mio silenzio e venire a romperlo con tutte e due le mani. Allora si fa così – lo dico a te che leggi, se mi leggi – vieni a cercarmi una volta e se non ti rispondo torna dopo un poco, e se ti ignoro torna un’altra volta, finché non ti guardo, e non desistere se allo sguardo ancora si accompagna il silenzio. Ricambia col tuo sguardo il mio, non dire niente ma siedimi accanto. Qualche volta il buio mi fa dimenticare le parole. Ma questo non vuol dire che abbia dimenticato te.