Collaborazioni e interviste

«Scrivere esalta, ravviva» – Intervista a Edoardo Pisani

Ho conosciuto Edoardo attraverso uno dei suoi primi scritti, un pamphlet ricco e tagliente dal titolo Vomitando il Novecento (goWare, 2013). Mi colpì una scrittura sorprendentemente matura per i suoi venticinque anni. Si capiva già allora che non solo aveva letto una montagna di libri, con sguardo critico e fulmineo, ma che quei libri lo avevano nutrito, dandogli cittadinanza, forma e diritto di scriverne. Diventammo amici per caso, grazie a cartoline inviate e mai ricevute, grazie a Rimbaud e Tabucchi, a Rosselli e Pagliarani, grazie ai libri che avevamo letto e alle cose che avevamo scritto. E anche attraverso i silenzi.
Dopo il suo esordio come narratore con E ogni anima su questa terra (Castelvecchi, 2022), ha di recente pubblicato E libera sia la tua sventura, Arthur Rimbaud! (Castelvecchi, 2023) e mi è sembrato che questo fosse un ottimo pretesto per parlare con lui di quanto gli sta più a cuore: la scrittura, la letteratura.

Comincerei da Rimbaud e dal tuo ultimo libro: “la sventura è la vita di Rimbaud e la libertà è la sua poesia”, si legge nella quarta di copertina. Che rapporto c’è, per te, tra vita e poesia, e più in generale tra vita e scrittura?

Parto dal generale: non credo possa esserci una differenza fra vita e scrittura, specie quando la scrittura finisce per organizzarti la vita e in alcuni casi per annullartela. Io dico spesso che uno scrittore deve saper rinunciare a tutto perché è l’unico modo per non perdere tutto, per lasciare che tutto sia ancora possibile. Per chi scrive seriamente, vale a dire avendo in mente un’opera da portare a termine, scrivere diventa vivere e viceversa: le due cose si fondono e si confondono. Lo scrittore autentico scrive anche quando pensa e certe volte smette di scrivere proprio nell’atto della scrittura, liberandosene sulla pagina, sebbene ciò non sia sempre facile e comporti talvolta dei malintesi con chi ti vive accanto. António Lobo Antunes dice che scrivere è come drogarsi, cominci per puro piacere e finisci per organizzarti la vita come i drogati, intorno al tuo vizio. C’è del vero in questo. Ma passando al particolare, cioè a Rimbaud e al rapporto tra vita e poesia, direi che fare poesia è anche fare fronte all’esistenza, cioè agli amori e ai dolori, alle sensazioni e ai rimpianti, a quanto c’è di oscuro e di luminoso in noi e negli altri. Va da sé che non tutti sanno farlo come Rimbaud. In questo secondo caso, credo, la vita è altro rispetto alla poesia: la vita è altrove e la poesia dispera invano di raggiungerla. Nel mio libro su Rimbaud c’è anche questo. 

Parli di rinunce, di vita altrove. La contropartita, mi pare, è il compimento dell’opera. Ma a cosa rinuncia uno scrittore (a cosa dovrebbe rinunciare, secondo te) e di cosa ha bisogno invece? 

C’è bisogno di un minimo di riconoscimento per ciò che si fa, un tempo non lo pensavo ma ora ne sono convinto. Pubblicare è importante, sebbene gli editori possano anche essere in ritardo rispetto all’opera che si crea. E si rinuncia alla normalità, vale a dire a uno stato sociale più o meno riconosciuto: lo scrittore, almeno per come lo considero io, deve essere un paria, un outsider, specie agli inizi. Naturalmente c’è anche bisogno di qualche complice, di qualche lettore avveduto che ci salvi dall’ombra. Dopodiché il tempo e il caso, soprattutto il tempo, badano al resto, che può accadere come non accadere. Talvolta occorre scendere a patti con il proprio destino. 

Vediamo a volte la scrittura come un’azione intellettuale che si accompagna a un mero gesto fisico – la mano che scrive. Credi sia davvero questo o pensi che scrivere sia piuttosto un’altra declinazione del corpo? Qual è per te il rapporto tra corpo e scrittura?

Scrivere per me è un atto completamente fisico: quando non posso farlo sto male fisicamente, mentre quando scrivo bene sono capace di correre per quaranta chilometri in preda all’estasi. Scrivere esalta, ravviva. Non scrivere invece è un disastro. Detto questo, mentre portavo a termine E ogni anima su questa terra avevo spesso violenti attacchi di nausea, quindi non sempre la scrittura ti salva. Ma i veri dolori arrivano quando non si scrive e non si può nemmeno leggere, quando “la chair est triste” e si sono letti tutti i libri, come scriveva Mallarmé. Io per fortuna oltre che nei romanzi e nei racconti posso rifugiarmi nei saggi e nel diario. Ogni tanto scrivo poesie. 

Il tempo della scrittura è un tempo puro, un tempo che chiede dedizione esclusiva, e al tempo stesso è un tempo corrotto: dalle esperienze, dalle fantasie che prendono vita sulla pagina e anche dalle voci che ci hanno preceduto e di cui ci siamo nutriti. Quali sono le tue voci, le tue fantasie ricorrenti, gli autori che hai letto e che hanno contribuito a costruire la tua identità?

È una domanda misteriosa che ha a che fare più con ciò che si sente che con ciò che si è. Per quanto riguarda le mie fantasie, temo che la risposta spetti solo ai miei lettori. Gli autori che mi hanno reso ciò che sono o ciò che credo di essere invece sono Arthur Rimbaud, Ennio Flaiano, Roberto Bolaño e Antonio Tabucchi. Ce ne sono anche altri, troppi per enumerarli tutti. In questo momento Virginia Woolf, Hemingway, Romain Gary, Robert Walser. Amelia Rosselli è stata fondamentale per l’ultima parte di E ogni anima su questa terra. Ma bisognerebbe parlare anche di tecnica. Ho scritto saggi su quasi tutti gli autori che amo. Non scrivo degli autori che non amo. 

Una domanda che non ti ho fatto e a cui vorresti rispondere.

Mi piacerebbe che tu mi chiedessi quali riscontri umani e artistici ho avuto per il mio primo romanzo. E poi se pubblicare un libro su Rimbaud mi abbia fatto smettere per un certo tempo di rileggere Rimbaud. Ma non sono certo di voler rispondere. 

Lascia un commento