Bussola

Un segno, un dono

Un pomeriggio di metà agosto di qualche anno fa ero al mare con mio marito e mia figlia. Il mare, in realtà, poteva anche non esserci, per me era un elemento irrilevante. Scendevo per la bambina, per farle prendere un po’ di sole, distrarla dalla noia di casa. Mi illudevo di rilassarmi anch’io, limitandomi a osservare ora quella distesa azzurra, ora i corpi degli uomini e delle donne intorno a me. Il gioco delle vite – chi è, che fa, da dove viene, perché è qui, con chi, ma poi perché proprio qui – durava poco, mi stancava presto. Cercavo per lo più di concentrarmi sulle cose che potevo toccare, sentire, sulle cose innegabili. I ciottoli sotto la schiena, il moscerino che, solleticandola, risale la caviglia, il riflesso del sole che lampeggia sull’acqua. Ma non c’era verso.

Nella mia testa c’è un paesaggio molto più variegato, per certi aspetti più affascinante. Tanto per cominciare non esiste prospettiva né proporzione. I pensieri sono degli oggetti enormi su scenari piccolissimi o, al contrario, minuzie infinitesimali su superfici vicine. Le dimensioni sono io stessa ad attribuirle, in maniera inconsapevole. In uno scenario qualunque ogni possibilità di sviluppo diventa presto un dramma o una tragedia, io fallisco perché non sono capace, mi ripiego su me stessa, desidero sparire. Qualunque sia lo scenario, questo è l’epilogo. Sempre uguale. Nella realtà le cose non vanno mai così, o quasi mai. Di solito in qualche modo ne esco, magari non del tutto illesa, ma comunque sopravvivo.

Quel pomeriggio no, continuavo a chiedermi dove sarei finita quando l’Ufficio Scolastico avrebbe dato il via alle convocazioni.
Ma almeno resti in regione.
Ma magari resti in provincia.
Ma magari sei qua.
Mentre il vicino sistemava il pastone per i pesci sulla lenza io cercavo le sedi più sperdute presenti nell’elenco di quelle disponibili. Mentre i maschi segnavano un altro punto a beach volley contro le femmine io digitavo su Google “affitti Vulcano”. Immaginavo la vita sull’altro versante, i rigidi inverni sui Nebrodi, le case con l’arredamento anni Settanta e i sanitari verdi o marroni, le pluriclassi alle Eolie, il mare grosso a novembre, di ogni posto consideravo la vicinanza o meno da un ospedale, da una stazione.

Discutevo con mio marito delle possibili prospettive. Potrai lavorare da remoto? Dovrai licenziarti? Mi sposto solo io? Porto con me la bambina? Ma da ogni discussione uscivamo affranti e frustrati. Non avere certezze vuol dire avere tante possibilità e tutte inutili. Quando finalmente è venuto il momento di tornare a casa abbiamo raccolto i teli e i giochi sparsi per la spiaggia e mi sono accorta di qualcosa che luccicava debolmente tra i ciottoli. Mi sono chinata a raccoglierla: era un piccolo treno di metallo ossidato. Mi sono chiesta come avesse fatto a finire lì, chi lo avesse perso e quando. Ma subito ho pensato a un segno. Questa è mia madre, mi sono detta, mi dice di stare serena perché qualunque posto potrò raggiungerlo in treno. Da quel momento e per tutto il giorno ho smesso di avere paura.

Mia madre sapeva sempre trovare il modo di sostenerci. Anche dopo averci dissuaso da un proposito, anche dopo aver manifestato in ogni modo il suo dissenso. Davanti a un ostacolo, a un problema, lei si è sempre adoperata per trovare una soluzione, e con caparbietà. Non ci ha mai lasciati soli. Tranne quella volta. E sono sicura che se avesse potuto scegliere non l’avrebbe fatto. Non l’ha fatto neanche stavolta, dicendomi a suo modo di stare serena.

La mia razionalità è forte, ma più forte, evidentemente, era il desiderio di sapere che questa solitudine che mi riguarda non sia poi così definitiva. Che da qualche parte, nell’imperscrutabile profondità del cielo, lei esista ancora, che ci sia, che mi pensi, che si adoperi in un modo nuovo per restarmi accanto. La mia razionalità vorrebbe avere la meglio, sottolineare l’evidenza tangibile della sua assenza: di che ti illudi? Che speri? Non lo vedi quel vuoto? Non lo senti, lui sì, vivo, dentro e intorno a te?

Ma più tangibile ancora era il piccolo treno che tenevo sul palmo. Brillava debole con la sua debole promessa, mi restituiva un po’ di quiete, un po’ di speranza.

Quando qualche giorno dopo sono arrivate le nomine sono tornata a respirare. Ero vicina, la sede che mi era stata assegnata potevo raggiungerla in treno, la mia vita non avrebbe subito lo scossone che temevo. Anche stavolta aveva avuto ragione lei, avrei dovuto stare tranquilla perché non ero sola, tutto si risolve, a tutto c’è rimedio. “Solo alla morte”, diceva, “non c’è rimedio”.

Un pensiero riguardo “Un segno, un dono

  1. Molto acuto e ben articolato questo tuo racconto-riflessione. Ho apprezzato moltissimo anche le due recensioni che ho letto. Ho deciso quindi di seguire il tuo blog , perché è difficile incontrare chi apprezza realmente la poesia e scrive poesia anche in prosa. Da parte mia solo complimenti.

    "Mi piace"

Lascia un commento