Bussola

Una vita senz’angoli

Ph Luìs Eusébio via Unspalsh

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Molti anni fa lessi un libro di Amanda Davis, Mi chiedo quando ti mancherò. La protagonista era un’adolescente torturata dai compagni di scuola perché grassa. Il libro mi piacque, lo prestai a un’amica che non me lo restituì più. Non lo prestai a cuor leggero, ma con fiducia: quell’amica era un’accanita lettrice e contavo che me l’avrebbe ridato dopo qualche giorno. Adesso è introvabile e mi pento di quello slancio di generosità.

Del libro in sé ricordo poco: una fuga, un circo, un tentativo di ricominciare. Ricordo bene, però, che a un certo punto la protagonista si ritrova a immaginare la vita come una stanza circolare, una stanza senza angoli dove potersi o doversi rifugiare. Una vita autentica, rotonda, dove non c’è bisogno di nascondere nulla perché non c’è nulla da nascondere. Quest’idea mi è tornata in mente, negli anni, molte volte. Mi suonava come un monito e al tempo stesso come un principio etico da seguire per potersi salvare dall’inautenticità, dalla menzogna.

Ma adesso mentirei se dicessi che da allora ho cercato di smussare della mia vita tutti gli angoli, di non avere troppi segreti con nessuno, nemmeno con me stessa. Li ho avuti, i segreti. Li ho cresciuti e protetti con lo stesso spirito di abnegazione di una madre. E con loro ho cresciuto i sensi di colpa, per mesi, per anni, lo scotto inevitabile da pagare. E mentre quei segreti li rendevo prigionieri del mio silenzio mi accorgevo che in realtà erano loro a tenermi prigioniera, trasformavano in notti oscure perfino le giornate più luminose e sembravano sussurrarmi lo vedi? Non sei libera, non lo sarai mai. Così, ogni volta che mi fermavo a ispezionare la stanza, scoprivo un angolo grande o tanti piccoli angoli in cui si annidavano e ristagnavano bugie e omissioni, come cumuli di polvere impossibili da ripulire.

Non posso dire che, una volta rivelati, quei segreti – parte di quei segreti – abbiano smesso di tormentarmi. Se da una parte veniva meno la colpa del nascondere, dall’altra restava quella dell’errore. Guardavo le vite degli altri, le paragonavo alla mia e non mi sembravano né più pulite né meno. Erano sicuramente, come la mia, delle vite triangolari, quadrate, esagonali. A quel punto ho capito che non esistono stanze circolari. Non esistono angoli del tutto immacolati. Chi si sia poi trovato, almeno una volta nella vita, a pulire un pavimento, sa bene che gli angoli, gli angoli soprattutto, sono difficilissimi da tirare a lucido. Resta sempre qualcosa incrostato lì, una macchia, una briciola, le ali rotte di qualche insetto.

Che fare, dunque? Rassegnarsi alla colpa? Assumere l’inautenticità come un destino? Piuttosto, smettere di concentrarsi solo sugli angoli, smettere di considerarli come se fossero l’intera stanza. È più ampia, la stanza, molto più ampia di così. Posso allora cercare di tenermi quanto più possibile al centro della stanza. Mantenere uno spazio equidistante tra me e la parte più miserabile di me. Non accanirmi contro di lei, ma neanche crogiolarmi in lei. Non cercare di modificare la forma della mia stanza, ma accettarla ormai così com’è. Non permettere alle parole non dette, a quei cumuli di polvere che a volte assumono le dimensioni di una mosca e altre di un elefante, di raggiungermi. Tenere pulito tutto il resto. Infine, di tanto in tanto, permetterti di entrare.

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