Bussola

Il primo ricordo

Ph. Alexandar Todov via Unsplash

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Qualche tempo fa ho visto un’intervista a Zerocalcare su Lucy nella quale a un certo punto Giada Arena chiede al fumettista quale sia il suo primo ricordo. L’autore le risponde che il primo ricordo a cui riesce a risalire è l’immagine di lui seduto sul tappeto di casa di suo padre mentre guarda He-Man and the Masters of Universe. Mi è sembrato interessante che il primo ricordo di un fumettista fosse una narrazione per immagini e mi sono chiesta se il primo ricordo che abbiamo di noi stessi possa in qualche modo costituire un momento fondante della nostra vita, definendoci e stabilendo, almeno in parte, ciò che siamo e ciò che diventeremo.

Se ci penso, mi pare che il mio primo ricordo risalga a quando avevo tre o quattro anni. È l’ora di pranzo e io sto mangiando il mio piatto preferito: pasta con l’olio. È estate. Da fuori la luce arriva in cucina attraversando una tenda antimosche a eliche bianche e verdi, come si usavano negli anni Ottanta. In terrazzo due uomini ne stanno montando un’altra, grande, a rullo, una tenda a righe larghe, bianche e gialle, che per molti anni avrebbe protetto dal calore i giochi estivi con mia sorella, diventando un elemento di sfondo della nostra infanzia. Ma io, in quel momento, piango. Piango perché quei due uomini stanno cambiando l’aspetto del mio terrazzo. Piango perché sono stata tradita dagli adulti della mia famiglia che hanno preso questa decisione senza prima comunicarmelo. È questo il mio primo ricordo: la mia realtà che cambia e io che non voglio, io che non posso farci niente.

E in effetti questo ricordo mi corrisponde. So bene che la vita è un continuo fluire, un continuo accogliere e lasciare andare, un continuo adattarsi. Ma questo movimento continuo mi costa fatica e, se posso, lo evito. Mi rintano nel mio ambiente sicuro e spero che vada tutto bene. Cambio solo se sono costretta, solo se mi sembra che la vita che vivo a un certo punto mi venga stretta, come un paio di scarpe ormai piccole e scomode; solo se proseguire il cammino, con quelle scarpe a cui pure sono affezionata, è diventato impossibile. Allora le tolgo e ne cerco di nuove, più comode, più giuste per me. Ma anche quando le trovo, all’inizio le odio. E le odio perché non sono quelle vecchie. Le odio perché non sono le mie.

Mia madre diceva spesso che i figli ti danno la misura del tempo che passa e del tempo che cambia (valore transitivo attivo). Mi sembrava un modo romantico e riduttivo di considerare la faccenda. E poi questi figli, sempre questi figli, come se nella vita di una madre non esistesse altro. Ora che ho due figli capisco cosa intendesse. Lo capisco perché ieri ero in ospedale a guardare i lineamenti bellissimi di mia figlia appena nata e oggi cerco i testi scolastici per il suo ingresso in prima elementare. Lo capisco perché ieri le insegnavo i versi degli animali della fattoria e oggi lei li insegna a suo fratello di undici mesi. E allora li vedo, gli anni, lo vedo quel tempo che passa e che cambia, lo vedo non tanto nello specchio, non tanto nelle prime rughe o nei primi capelli bianchi, lo vedo nei loro corpi, nei loro vestiti smessi da un giorno all’altro, nei giochi che non serviranno più, nella culla che tra poco riporrò per sempre, nel lettino nuovo comprato per la cameretta. Lo vedo e mi fa paura. Lo lascio andare e so che non tornerà, lo piego e lo infilo in un cassetto perché forse un giorno servirà a qualcun altro, lo dono perché a me adesso non serve più. E ogni volta che metto via qualcosa – un ciuccio, un body, lo sterilizzatore, la giostrina degli alieni per la culla – penso “stavolta è per sempre”.

E poi mi chiedo quale sarà il loro primo ricordo. Forse quella volta che siamo andati insieme allo zoo e una zebra ha infilato la testa nel finestrino della nostra auto. O forse quel compleanno festeggiato da soli per via del lockdown. O la prima volta che siamo andati al cinema, a vedere La grande invasione degli orsi in Sicilia. Quando chiedo alla più grande quale sia il suo primo ricordo, lei, con una fame bambina, mi risponde che ricorda tutto, ma da dove abbia inizio questo tutto non si sa. Allora mi sembra che ci sia ancora tempo. Per fare, per costruire. Per associare l’esperienza alla memoria, per gettare le fondamenta di quel che saranno un giorno. E intanto tengo sulle spalle il suo zaino e l’accompagno in colonia, mentre giochiamo a indovinare le canzoni cantandone il motivetto a bocca chiusa. Chissà, forse sarà questo il suo primo ricordo?

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