Bussola

Scrivere per nascondersi

Ho cominciato a mentire intorno all’età di quattro anni. Ricordo distintamente quella prima bugia. Ero in cucina con mia madre, tenevo in una mano un’agendina e nell’altra una penna. Conoscevo già le lettere dell’alfabeto, sapevo scriverle singolarmente ma non riuscivo ancora a metterle insieme per formare le parole. In quel periodo ero invaghita di un suo alunno, che avevo visto a scuola una delle volte in cui lei mi aveva portato con sé. E io, su quell’agendina, volevo scrivere il suo nome.

Che cos’è un nome e quale sia il suo valore ce lo insegna Dio nell’atto stesso della creazione e lo ribadisce Giovanni nel suo Vangelo: in principio era il Verbo. Lo ricorda Dante nella Vita Nova, riprendendo Giustiniano: nomina sunt consequentia rerum, i nomi sono conseguenza delle cose. Nella celebre scena del giardino dei Capuleti Shakespeare cerca di smentirne il potere, mettendo in bocca a Giulietta quelle inconsulte parole sulla rosa, che pure con un altro nome conserverebbe il suo profumo, salvo poi imbastire tutta la sua tragedia sul disastro del portare il nome sbagliato. Manzoni priva del nome uno dei suoi personaggi più controversi, ammantando di mistero la sua identità. Nella saga di Harry Potter non si può pronunciare il nome di Lord Voldemort, perché questo potrebbe voler dire evocarne il ritorno. Da sempre, dunque, il nome ha un potere magico, evocativo, creativo, porta fuori una qualche luce dal nulla indistinto, conferisce sostanza, corpo, identità. Presenza. Io a quattro anni queste cose certo non le sapevo, ma qualcosa dovevo pure intuire.

– Mamma, come si scrive “AR”?
– Prima scrivi la A e poi la R. Vuoi scrivere Arlecchino?
Ci penso un attimo.
– Sì.

Ed eccola, la mia prima bugia, la mia prima fondativa bugia. Detta per amore, per pudore; detta per negare la forza di quello che mi apprestavo a fare: scrivere, tramutare un pensiero in manifesta sostanza. Detta per nascondermi e al tempo stesso per autodenunciarmi. Detta perché ero innamorata e me ne vergognavo, perché volevo dire ma non potevo dire che cosa. Perché sentivo di non poterlo fare? E perché sentivo di volerlo fare comunque?

C’era – c’è sempre una qualche correlazione tra una verità che ci portiamo dentro e la parola che, sola, la fa affiorare in superficie rendendola visibile a chi si ferma a leggerla. È una verità che sentiamo il bisogno di pronunciare perché non sappiamo opporci alla sua forza, preme tra le nostre pareti, spinge per venire fuori. La parola le offre una via d’uscita, la riconosce, le fa la strada. Eppure, nella sua realizzazione, la verità si traveste. Se la parola le dà forma, la verità usa quella forma come una maschera. Alla mano che partecipa a questa nascita e a questo travestimento è richiesta una certa spudoratezza, nonché l’assunzione di un rischio.

Nel suo ultimo libro, La verità e la biro (Einaudi), Tiziano Scarpa indaga il rapporto tra verità e scrittura in maniera approfondita e pindarica. Volando da Saffo a Raul Montanari, da Ungaretti a Euripide, da Archiloco a una quantità di autori indefinita e vasta, intreccia ricordi ed esperienze personali per giungere infine a un punto: l’Occidente – e l’essere umano più in generale – ha un rapporto ambiguo con la verità. La cerca e la rifugge, la brama e fa di tutto per nasconderla. E sopra tutti gli esseri umani, avidi e pavidi di sapere a un tempo, per sfrontatezza, bramosia e viltà spiccano loro: gli scrittori.

La scrittura è da sempre un gioco di maschere e disvelamento. Un gioco, pure, erotico, che non disdegna stratagemmi e strategie, come una guerra sempre in atto – con sé stessi, con gli altri; o come una schermaglia d’amore che non mira a placarsi, ma che anzi si nutre di sospensioni e affondi e anela in questo modo all’infinito. Io voglio scrivere per nascondere chi sono, ma voglio scrivere anche perché qualcuno mi scovi, snudi il mio cuore e per ricompensa se ne appropri.

Nel libro di Melissa Febos, Questa mia carne (nottetempo), ricorre una citazione dello psicoanalista britannico D.W. Winnicott: “È una gioia rimanere nascosti e un disastro non venire trovati”. Mi sembra che sia una frase che ben riassume il motore e la causa che spingono alla scrittura: scongiurare il disastro, trovare un lettore capace di violare il nascondiglio, rompere il vetro di quella gioia, provocarne una maggiore. La bugia è il nostro nascondiglio, la scrittura è l’atto con cui lo mettiamo in pratica, il disvelamento è l’impresa del lettore, la ricompensa è la verità. Ciò è sicuramente vero per la scrittura autobiografica, i memoir e certe poesie. Eppure, anche in queste forme letterarie che ambirebbero forse alla più esplicita verità, è inevitabile una mistificazione, sia pure limitata, parziale che viene dall’atto stesso dello scrivere. Niente è mai come sembra, niente è mai come è detto, poiché sul materiale umano – la vita – interviene lo scrittore con la sua perizia artigiana, la sua techné. È la padronanza di queste regole di mestiere che trasforma una pietra in gioiello. Senza scrittura, la vita è mero accadimento.

Così l’ho scritto, quel nome e altri. Ho trasformato gli eventi, li ho nascosti, li ho travestiti. Da allora, ho praticato l’arte di mentire con sempre maggiore accuratezza. Ho cercato nuovi e continui nascondigli, abbandonandoli quando l’attesa diventava troppo lunga e vana. E talvolta io stessa non sapevo più dove trovarmi. Ho messo in atto parimenti l’inganno e la fiducia, con cieca ostinazione, confidando in quell’unico lettore che avrebbe saputo sfrondare ogni mio tentativo di essere e non essere. Nel mio covo di parole scritte mai ho smesso di sperare che un giorno mi trovasse, che un giorno venisse a reclamare fino all’ultima parte del mio cuore.

Lascia un commento